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mercoledì 3 novembre 2010

Le megalopoli come "destino" della società tecnologica. Un nuovo pensiero per un nuovo mondo.

L'aspetto più caratteristico di un mondo sovrappopolato è la megalopoli. La società basata sulla scienza e sullo strapotere della tecnologia promuove lo sviluppo delle grandi città che si tramutano in megalopoli, cioè in un gigantesco sistema artificiale autonomo che aumenta continuamente e sempre più velocemente le dimensioni e richiama ulteriore concentrazione e crescita demografica. La crescita di queste entità caratterizza sempre più la nostra epoca, l'epoca della tecnica. Il pensiero tecnico scientifico porta infatti ad una sempre maggiore organizzazione demografica funzionale ad una produzione materiale e immateriale che consenta la gestione di grandi masse umane, assicurando al contempo l'alimentazione, la vita culturale, il soddisfacimento dei bisogni materiali e sociali di un mondo sempre più sovrappopolato. Le stesse migrazioni attualmente in atto tra aree con alti tassi di crescita demografica verso zone più ricche ed organizzate è inquadrabile in questo destino di un mondo di megalopoli cui il pianeta si avvia. L'ambiente terrestre viene modificato da questo fenomeno su vasta scala, basta osservare le foto satellitari riguardanti le aree occupate dalle maggiori megalopoli che si espandono come una densa cortina grigia sulle aree prima occupate dal verde dei campi, da corsi d'acqua, da colline boscose. Al tempo stesso le polluzioni di queste aree "tecnicizzate" avvelenano l'ambiente circostante e l'atmosfera dei continenti e delle grandi isole che ospitano le megalopoli. Il concetto di campagna sta sparendo, in quanto le aree verdi rimaste acquistano sempre più il significato di aree di connessione tra le vaste megalopoli. Le aree ancora adibite ad agricoltura si riducono in ampiezza e si marginalizzano dal punto di vista spaziale e da quello culturale. La terra non produce cibo, non è più abitata dalla dea Cibele. E' solo uno spazio in attesa di una futura cementificazione. La megalopoli è metafora di ciò che è diventato il mondo: puro "sfondo" alla crescita umana.
Che cosa ha portato a questo destino il mondo? La risposta è semplice: la civiltà tecnico scientifica e la metafisica occidentale che ci porta a pensare in modo "illuministico", cioè ad appropriarci delle cose, ad utilizzarle, a consumarle e a vedere l'ambiente che ci circonda soltanto come "sfondo" di questa appropriazione. In una parola si tratta di un pensiero antropocentrico basato sulla oggittivazione e sulla presenza. Cosa significa che il pensiero antropocentrico considera il mondo e le cose come presenza, ed in particolare come presenza dell'oggetto?
Il pensiero occidentale è pensiero della presenza, prende in considerazione solo ciò che mi sta davanti, qui-davanti-in-questo-luogo, e che mi sta davanti ora, al momento presente in cui io sono qui e sono in relazione con l'oggetto. Questa visione porta a configurare l'oggetto come qualcosa da utilizzare e, in quanto da utilizzare, qualcosa di cui appropriarsi. Preliminare della utilizzazione dell'oggetto è la sua appropriazione da parte del soggetto. Preliminare della appropriazione è l'oggettivazione della cosa, il suo divenire oggetto mediante il pensiero calcolante che assume la cosa misurandola, classificandola, categorizzandola, inserendola nella "serie" degli oggetti da utilizzare. Serializzata la cosa, essa è merce, oggetto da trasformare ai fini della utilizzazione da parte del soggetto-uomo. Le cose del mondo così si antropizzano, divengono funzionali e al servizio della soddisfazione incondizionata dei bisogni dell'uomo. Per cambiare questo stato di cose non basta la politica. Finché l'uomo vedrà il mondo come campo della sua attività per soddisfare i suoi bisogni non ci sarà alcun regime politico che ci salvi dal destino di un mondo tecnologico e sovrappopolato. Per questo mondo la vita umana non avrà alcuno scopo se non quello di riprodursi all'infinito per fornire materia biologica atta al funzionamento del meccanismo tecnologico che occupa ogni angolo della terra. La terra non avrà più poesia, ma sarà il freddo sfondo dell'appropriazione antropica. Solo un nuovo modo di pensare può farci cambiare prospettiva, può farci tornare a vedere il mondo colorato dal sentimento poetico. E' necessario un passo indietro del pensiero che ci permetta di vedere meglio le cose del mondo senza farne oggetti da misurare e trasformare. Le cose vanno viste non come semplice presenza di oggetti, ma come manifestazione all'interno di un orizzonte di un qualcosa che, solo per il fatto di non essere nulla, ha uno spessore nel tempo e un significato da guardare con rispetto, cioè a distanza e senza alcuna appropriazione. Si tratta di guardare con occhi puri la meraviglia del mondo nel suo darsi originario. Sentire la meraviglia di un paesaggio, percepire il sacro che è in un bosco, guardare l'animale come co-appartenente ad un comune destino. Ciò significa dare un mondo, restituire un senso all'esistenza di cose della natura, agli animali, al cielo che ci sta sopra, al suolo che calpestiamo, all'acqua, alle sorgenti, ai fiumi, al mare, all'aria, alla luce che riempie l'orizzonte, all'orizzonte di quella coappartenenza di tutto ciò che è -solo perché è- insieme a noi stessi che lo comprendiamo con la mente. La presenza delle cose va allora vista non solo come pura presenza, come disponibilità alla fruizione qui e ora. Va sentita la storicità di ogni cosa con cui ci rapportiamo, il suo appartenere al passato, al presente, al futuro. Le cose, la natura, un ambiente, persino una pietra inanimata hanno una storia che parla un linguaggio che noi, prima di agire sul reale trasformandolo, dobbiamo fermarci ad ascoltare. Solo nella loro storicità le cose del mondo hanno un senso. L'uomo non può distruggere tutto nel nichilismo tecnologico, occupando ogni sito con i suoi manufatti, stravolgendo i luoghi, riempiendo di suoi simili ogni angolo del pianeta in un appiattente globalismo antropico. Ri-pensare le cose, tornare alla rammemorazione, rivalutare il tempo con la sospensione, la pausa, l'ascolto, il dialogo poetante che ci riporta, noi e il mondo, all'originaria coappartenenza.

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