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martedì 27 dicembre 2011

CELINE: L’UOMO E LA NOTTE SENZA FINE




Le notti della guerra al fronte nel ’15-’18 scritte da Celine sono tra le pagine più belle della letteratura moderna. Come non andare con il ricordo ai versi stupendi dell’Iliade che descrive la notte sulle truppe degli Achei accampati sulle spiagge prospicienti la città di Troia, rischiarata dai fuochi notturni accesi negli accampamenti. Dice Omero che i fuochi degli uomini, in basso, somigliavano alle luci del cielo stellato in alto in una specie di corale melodia. E come non ricordare ancora la notte di Leopardi, nel “Canto notturno di un pastore…”. Ma queste notti della Grande Guerra vanno oltre la poesia. Celine ci mostra in questo brano del “Viaggio al Termine della Notte” come la bellezza della notte sia perduta per l’uomo moderno, incapace di fermarsi a guardare il cielo stellato. In quei primi anni del ‘900, che doveva essere il secolo del progresso, è troppo impegnato sui campi di battaglia in un’opera di distruzione, in un vero massacro senza senso, al servizio di una grande macchina tecnologica che divora tutto e che non si riesce più a controllare. Il contrasto tra il lirismo della notte e la concretezza terrena della guerra è il contrasto che regna tra l’uomo moderno e la natura, tra la tecnica bruta e il bisogno di un’alba che non viene.


“Ma il più delle volte non lo trovavamo mica il reggimento, e non facevamo altro che aspettare il giorno aggirandoci intorno ai villaggi per sentieri sconosciuti, ai margini dei borghi evacuati, e i subdoli boschi cedui, scansavamo tutto questo per quanto possibile a causa delle pattuglie tedesche. Bisognava comunque pur essere da qualche parte attendendo il mattino, da qualche parte nella notte. Potevamo mica evitare tutto. Da allora, so cosa devono provare i conigli selvatici.
Marcia in modo strano la pietà. Se qualcuno avesse detto al comandante Pincon che lui altro non era che uno sporco assassino vigliacco, gli avrebbe fatto un piacere enorme, quello di farci fucilare, seduta stante, dal capitano della gendarmeria, che non lo lasciava mai d’un passo e che, lui, pensava esattamente a quello. Era mica con i tedeschi che ce l’aveva, il capitano della gendarmeria.
Dovemmo dunque rischiare le imboscate per notti e notti imbecilli che si susseguivano, con la sola speranza sempre meno ragionevole di ritornare e quella soltanto e anche che se fossimo tornati non avremmo dimenticato mai , assolutamente mai, che avevamo scoperto sulla terra un uomo congegnato come voi e me,ma molto più carogna dei coccodrilli e degli squali che passano fra due acque a fauci spalancate attorno ai battelli d’immondizie e carni avariate che vanno a scaricare al largo, all’Avana.
La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera (…)
E tutte le sere poi verso quell’epoca, molti villaggi si sono messi ad ardere all’orizzonte, questo si ripeteva, ne eravamo circondati, come dal gran cerchio di una strana festa di tutti quei paesi là che bruciavano davanti a noi e ai due lati, con fiamme che montavano e leccavano le nuvole. Si vedeva passarci tutto nelle fiamme, le chiese, i fienili, le une dopo gli altri, i covoni di fieno che facevano le fiamme più animate, più alte del resto, e poi le travi che s’alzavano tutte diritte nella notte con barbe di faville prima di ricadere nella luce. Si vede bene com’è che brucia un villaggio, anche a venti chilometri. Era allegro. Un borgo da niente che non si notava nemmeno durante il giorno, in fondo a una campagnetta meschina, eh be’, si ha mica idea la notte, quando brucia, l’effetto che può fare! Potrebbe essere Notre-Dame! Ci mette anche tutta una notte a bruciare un villaggio, anche uno piccolo, alla fine si direbbe un enorme fiore, poi, nient’altro che un boccio, poi più niente. Fuma, allora è mattino.. I cavalli che lasciavamo sellati, nei campi intorno a noi, non si muovevano. Noi, andavamo a ronfare sull’erba, salvo uno, che faceva la guardia, a turno, per forza. Ma quando ci sono i fuochi da guardare, la notte passa molto meglio, è più niente da sopportare, non è più la solitudine.
Sfortuna che non han durato i villaggi…In capo a un mese, in quel cantone, non ce n’era già più. Le foreste anche, gli han tirato sopra, coi cannoni. Non han durato otto giorni le foreste. Fanno ancora bei fuochi le foreste, ma sta per finire.
Si faceva la coda per andare a crepare. Perfino il generale non trovava più accampamenti senza soldati. Abbiamo finito per dormire tutti in aperta campagna, generali o no. Quelli che avevano ancora un po’ di cuore l’hanno perso. E’ a partire da quei mesi lì che hanno cominciato a fucilare i soldati semplici per tirargli su il morale, a drappelli interi, e che il gendarme ha cominciato a essere citato all’ordine del giorno per il modo con cui conduceva la sua piccola guerra personale, quella profonda, vera tra le vere (…)
Ci ritagliavamo nella notte qua e là dei quarti d’ora che assomigliavano molto al tempo adorabile della pace, a quei tempi diventati incredibili, dove tutto era benevolo, dove niente in fondo arrivava mai al dunque, dove si realizzavano tante altre cose , tutte diventate adesso straordinariamente , meravigliosamente gradevoli. Un velluto vivente, quel tempo di pace…
Ma presto le notti, anche quelle, a loro volta, furono braccate senza pietà. Quasi sempre la notte bisognava far lavorare ancora la stanchezza, patire un piccolo supplemento, solo per mangiare, per trovare una piccola razione di sonno nel buio. Arrivava alle linee degli avamposti, il mangiare, vergognosamente strisciante e greve, in lunghi cortei zoppicanti di carriole precarie, gonfie di carni, di prigionieri, di feriti, d’avena, di riso, di gendarmi e anche di bibendum, il vino in barilotti, che ricordano così tanto la goduria, traballanti e panciuti.
A piedi, i ritardatari dietro i fornelli e il pane e i prigionieri, dei nostri, e anche dei loro, in manette, condannati a questo, a quello, mescolati, attaccati per i polsi alla staffa dei gendarmi, alcuni da fucilare domani, non più tristi degli altri. Mangiavano anche quelli la loro razione di questo tonno così difficile da digerire (non ne avrebbero avuto il tempo), aspettando che il convoglio riparta, sul ciglio della strada – e lo stesso ultimo pane con un civile incatenato con loro, che dicevano che era una spia, e lui non ne sapeva nulla. Noi nemmeno.
La tortura del reggimento continuava poi in versione notturna, a tentoni nelle stradine gibbose del villaggio senza luce e senza volto, piegati sotto sacchi più pesanti di uomini, da un fienile sconosciuto a un altro, strapazzati, minacciati, dall’uno all’altro, , stravolti, senza speranza, proprio di finire altrimenti che nella minaccia, il colaticcio e il disgusto di essere stati torturati, ingannati a sangue da un’orda di pazzi viziosi diventati improvvisamente incapaci d’altro, fin che c’erano, che non fosse uccidere e farsi sbudellare senza sapere perché.
Pancia a terra fra due letamai, a furia di bestemmie, a furia di calci in culo, ci si ritrovava ben presto rimessi in piedi dalle gradaglie e risbattuti ancora una volta verso altri incarichi del convoglio, ancora. Il villaggio trasudava mangiare e pattuglie quella notte gonfia di grasso, di patate, d’avena, di zucchero, che bisognava portare a spalle e buttar lì, a caso in mezzo alle squadre. Portava di tutto il convoglio, tranne la fuga.
Stremata, la corvé si buttava giù attorno alla carretta e allora arrivava il furiere col suo fanale sopra quelle larve. ‘Sta scimmia a doppio mento che doveva scovare gli abbeveratoi nel caos quale che fosse. Da bere ai cavalli! Ma se ne ho visti ,io, quattro uomini, sedere compreso, ronfarci dentro nell’acqua, morti di sonno, fino al collo. “
(Da “Viaggio al Termine della Notte” Editore Corbaccio, 1992, pag. 32 e seg.)


Forse nessun altro scrittore o poeta ci ha dato una descrizione così concreta, carnale, di quelle notti di guerra, dove uomini silenziosi vagavano tra villaggi surreali, in un buio innaturale rischiarato dai fuochi degli incendi, su strade fangose tra deiezioni umane e topi. Era uno spaesamento che non riguardava solo quei poveri soldati, era lo spaesamento di tutta una cultura, di un’intera generazione che era cresciuta nella fiducia nel potere della tecnica e nelle sorti magnifiche e progressive dell’uomo occidentale. In quel silenzio , rotto dal ritmico terribile tonfo delle granate da 55 sparate dai cannoni contrapposti dei popoli europei, finiva un’epoca. In quelle lunghe notti passate appiattiti nelle trincee o sgattaiolando nelle campagne e nei borghi deserti e spesso in fiamme della Grande Guerra, finiva malinconicamente la grande illusione illuminista del dominio incontrastato dell’uomo sulla natura. La notte, con la sua potenza di buio e di silenzio, riprendeva possesso della Terra e gli uomini si ritrovavano a spararsi addosso senza un perché. Si concludeva così la fiducia nel progresso senza limiti e, allo stesso tempo, l’epoca spensierata della Belle Epoque. Subentrava un sentimento claustrofobico in cui l’uomo si sentiva come un topo, rintanato nelle trincee, disperso nella notte, in quelle notti rischiarate solo dai villaggi che bruciano, chiuso nella gabbia di una civiltà che dopo la promessa della felicità sulla Terra, dava luogo al massacro spaventoso e inutile di una intera generazione di civili cittadini della civile Europa . La Scienza e la Tecnica che dovevano darci il paradiso in questo mondo, ci hanno portato invece le bombe, la morte violenta in una apocalisse mai vista. In quelle trincee nasceva, forse, il primo bagliore di una nuova sensibilità, meno arrogante e meno sicura di se, ma più rivolta ai problemi del pianeta e della natura. Gli sconfitti di quella guerra non erano gli imperi centrali, e nemmeno l’intera Europa: in quelle trincee era sconfitto l’uomo moderno che confidava solo in se stesso. L’esito della sicumera illuminista era quello illuminato dai bengala lanciati sui campi di battaglia: gli uomini ridotti a topi, a inutili animali replicanti, aggressivi e distruttivi di ogni cosa fino a distruggere se stessi. agobit

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